Festeggiamo il significato di “essere grigi” di Beatrice Bruno

Festeggiamo il significato di “essere grigi”

di Beatrice Bruno

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Caro popolo del calcio, mi chiamo Beatrice, ho diciassette anni.

 Ho sempre pensato che vivere qui fosse triste, monotono, poco stimolante. L’unica ancora di salvezza, l’unico respiro a pieni polmoni, l’unica fune a cui aggrapparsi per fuggire dalla banale quotidianità provinciale, qui, é il calcio. O meglio, é l’Alessandria.
Ho sempre cercato di descrivere ciò che significa tifare Alessandria nella mia normalità, in ogni domenica. Di ciò che significava vivere all’insegna del grigionero in un clima di totale indifferenza cittadina.
Ho cercato di descrivere ciò che ho sempre provato.
Ho cercato di farlo prima che il pittore cominciasse a dipingere la tela, prima che lo scrittore componesse il suo romanzo, prima che il musicista cominciasse il suo assolo.
Ho cercato di farlo quando l’aristocrazia aveva ancora nelle sue mani il grande calcio,  quando tutto era logico, razionale; quando tutto, anche qui, era logico e razionale. 
Quando ancora storcevamo il naso perché l’impresa più difficile che si proiettava davanti a noi era battere il Cittadella; quando dovevo ancora andare a Palermo; quando Bocalon, ve lo giuro, faceva fatica a segnare.
Vi scrissi prima che il mio mondo facesse innamorare l’Italia intera.
Vi scrivo anche ora. Anzi, vi scrivo soprattutto ora.
Ora che il terzo stato ha preso le redini del governo del pallone, ora che la rivoluzione grigionera è all’apice del suo successo.
Ora che le grande montagne si sono sbriciolate in sabbia, ora che la mia squadra del cuore, è diventata il cuore della Coppa Italia.
Ora che tra l’elite nazionale compare un nome così insolito.

Abbiamo compiuto un miracolo.
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Il due dicembre sono partita per Palermo con i miei inseparabili compagni di Grigi.
Quando mai ci sarebbe capitato di vedere la nostra compagine giocare in uno stadio così rinomato? Volevamo passare una giornata evento, una giornata unica, che a malincuore sapevamo non si sarebbe più ripetuta.
E inutile che vi dica com’è andata… Perché non ne sarei nemmeno in grado.
A Palermo abbiamo pianto tutti. Non avevamo nemmeno lontanamente pensato di potercela fare: la razionalità faceva ancora parte delle nostre vite in quel momento. Ci eravamo commossi perché era così inusuale che festeggiassimo qualcosa di così grande proprio noi, rassegnati veterani di un campionato da sbadiglio. 
Tornai a casa con un sacchetto di cannoli in mano e, nello zaino, la consapevolezza di aver vissuto qualcosa di irripetibile che purtroppo avrebbe avuto vita breve.
Tornai a casa e non riuscii a dormire… Mi chiedevo che fine avremmo fatto dopo quell’avventura.
Andammo tutti a Mantova e poi venne a farci visita il Sudtirol: giusto per ricordarci che il nostro mondo, per ora, era quello.
Davanti a noi però ci attendeva un’altra pagina bianca: solo il titolo. Quelle due parole però emozionavano: Genoa – Alessandria, il resto lo avremmo deciso noi.
Partimmo tutti per la storia: storia di due tifoserie gemellate da quarant’anni, di due club che segnarono il vecchio calcio, storia del nostro futuro.
Partimmo con l’idea di andare a festeggiare, qualunque risultato ci fosse toccato subire.
E lì, tra le possenti mura di Marassi, la logica ha voltato le spalle. Segnammo, segnammo l’uno a zero. I nostri ragazzi avevano i crampi e un nostro terzino, stroncato da un dolore pazzesco alla caviglia, dovette abbandonare il campo. I cambi erano terminati e il Genoa, inevitabilmente, pareggiò con Pavoletti. 
Supplementari: l’incubo di una squadra di Lega Pro. Niente gambe, niente fiato. IN TEORIA.
In pratica? In pratica segnammo di nuovo, nel secondo tempo supplementare. Fu sogno. Fu vita. Fu qualcosa che non si può spiegare. Mi mancavano le forze, mi mancavano le lacrime: sentivo solo il mio cuore che batteva, batteva fortissimo. Avevo in testa solo tre parole“SIAMO NELLA STORIA”.
Urlai a squarcia gola, tutto bruciava. Urlai “Andiamo a Roma!”.
Mannaggia a me e alle mie gufate. La Roma avrebbe giocato il giorno dopo contro lo Spezia.
Puntualmente, passò il turno la squadra peggiore che potesse capitarci. Rivale storica, peggio di un derby. Antipatia profonda, insanabile.
Non vedevo Spezia – Alessandria da sei anni e, sinceramente, non mi mancava proprio.
“Roma-Alessandria” sarebbe stato un evento, “Spezia-Alessandria” sarebbe stata LA PARTITA.
E ora, tutta la ragione che poteva racchiudersi nei cervelli dei tifosi dell’Alessandria ci abbandonò. Non ci sarebbero state scuse: Palermo e Genova dovevano essere due premi, indipendentemente dal risultato finale. Ora il gioco si faceva serio: con lo Spezia non potevamo permetterci di perdere. 
A chi importava la semifinale di coppa Italia di per sé? A noi interessava semplicemente vincere contro i bianchi.
Dopo settimane e settimane di attesa, dopo notti insonni, dopo scariche di adrenalina continue e improvvise, arrivò il grande giorno.
27 pullman partirono da Piazza Perosi: sullo sfondo il Comunale Giuseppe Moccagatta benediva la nostra avventura.
Arrivammo al Picco in 1600. Volti mai visti, facce sconosciute, i soliti compagni di cori e… vecchie guardie che avevano abdicato, ma che per questa volta non potevano mancare.
Spezia – Alessandria è sempre stata una partita bruttissima. Non sentivo niente. Solo la mia voce che cantava indipendentemente da ciò che i miei impulsi nervosi comandavano, solo i brividi lungo la schiena.
Dopo 20 minuti equilibrati, il calcio d’angolo in favore spezzino. Dal calcio d’angolo, il fallo. Dal fallo, il rigore. Calaiò non sbagliò sotto la Curva Piscina. Esultò verso i suoi ottomila tifosi. E io sentì il mondo crollarmi addosso. Un magone infinito, non meritavamo di finirla così. Trattenevo le lacrime perché qualcosa mi diceva di farlo, non meritavamo di finirla proprio aLa Spezia.
Il nostro artista del centrocampo Loviso, uscì. Al posto suo Bocalon.
Papà si gira verso di me:” Gregucci vuole segnare a tutti i costi”, disse. Dopo una manciata di minuti il nostro numero otto si ritrova solo davanti al portiere. Lo beffa. Segna. È boato. Mai sentito tanto caos. La gradinata è di metallo e 3200 piedi battono aritmicamente: vi lascio immaginare. Cantiamo che un giorno all’improvviso ci innamorammo di lei, che siamo talmente deficienti che senza di lei non sappiamo stare, che doveva farci un gol, solo uno, solo un altro, solo per noi.
Dopo otto minuti Vitofrancesco, qualche metro fuori dall’area, c’entra perfettamente la testa di Bocalon che spiazza tutti mandando sorprendentemente il pallone verso il palo più vicino. Da quel momento in poi non ho capito più nulla. Urlavo, piangevo, ridevo, cantavo, saltavo, cadevo, mi rialzavo e di nuovo da capo.
Era impossibile fosse successo, non poteva essere così. 
Noi, la squadra del consueto e mai riuscito tentativo di riscatto. Noi, da Alessandria, la cittadina più fredda e nebbiosa di tutta la penisola. Noi, marinai che hanno naufragato troppe volte, noi che siamo sempre stati sull’ultima spiaggia.
Noi, che abbiamo barcollato nel buio più impenetrabile per quarant’anni, noi che “Alessandria? Ah la Borsalino! Ah, Gianni Rivera”. Noi, che siamo sempre stati l’ombra del nostro passato. 
Noi vincemmo la partita.  Noi in semifinale di Coppa Italia
Noi che giocammo a Varallo Pombia (e non chiedetemi dove sia Varallo Pompia perché farei davvero una brutta figura).
Noi che… Beh noi che non ce l’abbiamo mai fatta.
Una vecchia grande che non è mai più riuscita a slegarsi dall’aggettivo “vecchia”, che ha scritto la storia del passato, che non è mai più riuscita a riscrivere il suo presente.
Una vecchia grande che…ora è finalmente GRANDE e basta. 
E noi? Noi come ci sentiamo? Non riesco a spiegarvelo. 
E il Milan? E all’Olimpico, a San Siro? Andremo a festeggiare di nuovo. Ma questa volta non festeggiamo la vittoria precedente e “il grande traguardo raggiunto”. Questa volta festeggiamo noi stessi: le nostre lacrime di gioia, i nostri abbracci, le nostre voci all’unisolo.
Questa volta festeggiamo il significato di “essere grigi”.Beatrice Bruno, 22 Gennaio 2016, Alessandria.
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