Il Bar Baleta: L’Intrepida.

Non vorrei aver dato, nel post precedente l’impressione di un bar popolato da misogini barbuti, infastiditi anche dalla sola presenza femminile, per non parlare poi delle caratteristiche fisiche e psichiche proprie del gentil sesso. Tutt’altro. I frequentatori del locale, al contrario erano tutti grandi ammiratori dell’altra metà del cielo, solo che negli anni della ripresa economica (per non parlare naturalmente di quelli precedenti di cui non ho esperienza diretta) la Donna era un genere nettamente distinto dall’Uomo, idealizzato e iconizzato, bramato ed al contempo temuto, in massima parte assolutamente sconosciuto nelle sue sfumature e tratteggiato solo nelle caratteristiche esterne più facilmente riscontrabili. Potremmo definirlo una categoria kantiana. Il fatto che nessuna donna entrasse nel bar era vissuto come una cosa del tutto naturale e alla fin fine anche piuttosto rassicurante, che permetteva una chiacchiera più libera e uno sciogliersi delle difese esterne. L’atteggiamento maschile allora era completamente diverso nel momento in cui si finiva in un ambiente misto, che fosse il luogo di lavoro dove rimaneva eretta una barriera invalicabile data dalle gerarchie o nei luoghi di incontro classici come le sale da ballo (rigorosamente con orchestra) dove il contatto aveva regole dettate dal desiderio formalistico di mostrare un se stesso efficace ed interessante, in ogni caso lontanissimo da ogni forma di cameratismo che sarebbe poi subentrato subdolamente col tempo, con l’introduzione diffusa delle classi miste a scuola. Nella realtà, nei rarissimi casi in cui in quegli anni (gli storici del bar insistono che si potessero contare sulle dita di due mani) un essere di genere femminile era penetrato, attraverso la porta a vetri del vicolo, nella sala del bancone fendendo la spessa nebbia del fumo azzurrognolo delle sigarette, è certo che la vita si fermava completamente.

Potevi avere l’impressione di quelle immagini freezate in cui ogni figura del quadro rimane come sospesa nell’attività che sta svolgendo in quel momento. La tazzina del caffé sospesa a mezz’aria, la sigaretta che pende ancora spenta dall’angolo della bocca, la carta in attesa di essere calata, ancora in bilico tra le mani. La vita del bar si fermava come se una fata maliziosa avesse lanciato la polverina magica nell’aria dicendo “vi risveglierete dall’incantesimo non appena la principessa se ne sarà andata”. E la figura al centro dell’attenzione non poteva non avvertire quell’atmosfera tutt’affatto innaturale, come sospesa, con una gentilezza e cortesia da parte di chi era dall’altra parte del bancone quasi affettata ed anomala, mentre ogni presente osservava, ammirava, presupponeva ed il cervello cominciava ad elaborare stringhe di pensieri inespressi, stereotipi presi dalla banca dati del maschio italico, conditi dalla variante di pensiero alessandrina, irriverente e sarcastica, spesso cattiva a sproposito. Di certo se l’ingresso era avvenuto per un caso fortuito, la signora in oggetto consumava frettolosamente ed usciva ripromettendosi di non ripetere l’esperienza, se invece l’ingresso era avvenuto con intenzione e quasi con sfida alle convenzioni, è probabile che, durante questo spazio sospeso, analizzasse la serie di sensazioni, provando chissà, allo stesso tempo piacere per la sfida portata a termine e forse disagio per una situazione ambientale assolutamente non ostile, ma di certo imbarazzante. La suddetta si ritirava comunque con cautela come una fiera che si rendesse conto di avere invaso un territorio marcato chiaramente da un altro branco, come una leonessa che non protetta dal proprio gruppo, lascia la terra incognita quando si sente circondata da una famiglia di sciacalli troppo numerosa, anche se tutti la guatano solo da lontano, silenziosi.
Di certo comunque nessuna donna lasciò il terreno, pur periglioso della sala d’ingresso, per avventurarsi nei meandri della sala carte o peggio della zona biliardi. Ma all’uscita dell’essere alieno cosa rimaneva? Di certo qualcosa era accaduto e nell’aria fluttuava a lungo la fantasima lieve di quella presenza ammirata eppure estranea, subito mitizzata ed irreale, frutto proibito di un racconto esotico di cui parlare a lungo. Un aspetto immaginifico che Gino ha mirabilmente rappresentato nel disegno dell’Intrepida, in cui sono racchiuse tutte le caratteristiche, sognate, immaginate e forse neppure mai esistite. Eccola la Donna che entrava nel bar, icona di un desiderio di rottura degli schemi e delle convenzioni in quegli anni ancora da venire, ma di cui qualcosa già fluttuava nell’aria. Intanto aveva i pantaloni (aderenti e fin troppo come si vede bene), che già rappresentavano una dichiarazione esibita di emancipazione dal comune sentire e forse una camicetta dal collettino virginale di cui la primavera, coi suoi umori, accentuava la provocazione. Naturalmente era bionda, promessa di paradisi sconosciuti e desideri inconfessabili, e poi, guardatela come entra, con la sicurezza di chi sa cosa vuole, lo stile perfetto, con quel leggero movimento dell’anca e l’ondeggiamento su un tacco insolitamente generoso, foriero di promesse e sottintesi. Un leggero sorriso ironico sulle labbra rosse e un Borsalino (siamo o no ad Alessandria) a falde larghe un po’ sghimbescio per sottolineare ancor di più la propria aggressività. Forse questa donna non è mai esistita e non ha mai varcato davvero la soglia del bar, ma quel che è certo è che tutti pensano che lo abbia fatto un giorno. La realtà è stata di certo diversa. Come quella volta che, forse proveniente dal vicino e misterioso Dollar Club, il primo night aperto in città, di cui si favoleggiava di notti infuocate e, forse addirittura nella presenza di ragazze sole che accompagnavano gli avventori per farsi offrire da bere, entrò una signorina di un tipo assolutamente particolare.
Gino che armeggiava sotto il bancone per afferrare il sifone del seltz, quando alzò la testa, riuscì solo a vedere che sotto il giubbotto o quel che era, malamente chiuso, non c’era altro che un minuscolo tanga verde ad evidenziare grazie di certo esagerate e generosamente esibite. Il brusio nella sala aumentò gradatamente di volume, mentre si intrecciavano commenti da accademia dei Lincei in strettissimo dialetto locale, per non mettere a disagio l’ospite, che, conscia di certo dell’effetto provocato, lasciò il luogo del delitto in una scia di essenze orientali misteriose ed ammalianti. Fu un errore casuale o un giro di propaganda voluto? Pubblicità progresso? Nessuno lo seppe mai, ma di certo il fatto rimase a lungo nei commenti degli avventori, ogni volta diverso e più ricco di particolari sognati e di certo mai visti, come se ognuno avesse avuto una sua personale apparizione sulla via di Damasco, da raccontare ai posteri per appagare  propri bisogni inespressi. Tutto questo può apparire troppo colorito e forse frutto di quel misto tra nostalgia ed esagerazione che condisce il flusso dei ricordi, ma doveva essere di certo un dogma ben netto nell’ambiente della Piazzetta cittadina, se ancora adesso, a distanza di decenni, ogni tanto qualche signora, incontrando Gino per la strada, dopo una chiacchierata ed i convenevoli di rito, gli sussurra a bassa voce, in un dico non dico ammiccante: “Io una volta ci sono entrata da Baleta!” e se ne va soddisfatta. Gino la saluta con garbo dicendole:”Certo signora, mi ricordo”, le sorride e mentre se ne va contenta, butta lì, rivolto ai presenti: “Mica vero, mai vista nel bar!”.

Baleta intrepida