Alessandria, 9 maggio 1974: la strage dimenticata

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Giovedì 9 maggio 1974, l’Italia è in piena campagna referendaria. Siamo ormai ad un passo dalla fatidica data di domenica 12 maggio, giorno in cui, scheda alla mano, l’intero corpo elettorale potrà scegliere tra un si e un no su un tema scottante: la legge che disciplina (ancora oggi) il divorzio. Si tratta della prima consultazione referendaria dopo quella del 2 giugno 1946 con la quale è stata sancita la nascita della nostra repubblica.

Il tutto si svolgeva in un clima d’attesa particolarmente rovente, e Alessandria non si era tirata indietro in questa tenzone democratica. Anche in città arrivava il vento delle polemiche, si assisteva ad una grande partecipazione popolare. Forti le tensioni politiche tra chi soffiava sul desiderio del cambiamento e chi pretendeva un rigido rispetto dell’esistente. La tanto discussa legge sul divorzio era sostenuta dalla sinistra laica, socialcomunista e radicale, e contrastata dal vecchio schieramento democristiano di Amintore Fanfani con il suo seguito di cattolici al completo, oltre che dalla destra di Almirante. A rendere ancora più incandescente il clima elettorale era stato anche l’avvio, a livello nazionale, della grande stagione del terrorismo, con brigatisti rossi e bombaroli neri in cerca di armi da usare e nemici da sconfiggere nel nome del lutto rivoluzionario.

Giovedì 9 maggio 1974, ore 10, per Alessandria si apre una giornata drammatica: all’interno delle aule del carcere Don Soria, dove si tengono i corsi per il conseguimento del diploma di geometra, si presentano a lezione tre detenuti, che, come si legge in alcune ricostruzioni documentali di allora, “hanno due borse, cosa forse normale in altre condizioni e non tale da richiedere dei controlli.” Dentro le borse però non ci sono libri, né penne o quaderni, bensì delle armi. Due pistole, una Colt e una Smith and Wesson.
I detenuti Concu, Levrero, e Di Bona hanno deciso che la loro carcerazione è ormai conclusa alla faccia delle decisioni di un tribunale, e, per realizzare il loro progetto di evasione, prendono in ostaggio chi incontrano sul proprio cammino. Sequestrano insegnanti della scuola penitenziaria, agenti di custodia, il medico, il dottor Roberto Gandolfi, e si rinchiudono nell’infermeria. Le armi che impugnano sono vere e le intenzioni dei tre altrettanto serie. Un colpo a scopo dimostrativo sparato da uno di loro toglie ogni dubbio a tutti quanti.

Nonostante il clima, l’assistente sociale, Graziella Vassallo Giarola, si offfre per tentare un dialogo con i detenuti. Conosce quegli uomini da tempo, e crede di avere un buon ascendente su di loro. In fondo li lega un rapporto costruito di volta in volta con incontri mirati, e sa di poter mediare, di poter contribuire a risolvere la vicenda nel miglior modo possibile.
Invece, per lei come per tutti, le porte del Don Soria si schiudono al dramma prossimo venturo.

Appena un’ora dopo, la piena travolge la città: lo Stato avanza al completo sottoDalla Chiesa Carlo Alberto forma di magistrati, e ufficiali dei carabinieri (il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il Procuratore di Torino Reviglio della Venaria saranno i nomi dei protagonisti indiscussi della vicenda e della sua rapida conclusione). Prende il via una prima trattativa con le spalle coperte da cecchini appostati sui tetti delle case limitrofe e all’interno dello stesso istituto penitenziale.

Nel frattempo giornalisti di ogni testata approdano in città occupando bar, locali commerciali, qualunque spazio provvisto di telefono per tenere aggiornata la situazione con la redazione di appartenenza. La notizia entra in ogni casa e lascia tutti a bocca aperta. Uno schiaffo ai sentimenti, alla serenità di casa nostra. Crolla subito la convinzione di essere una provincia tutelata dalle contraddizioni dell’epoca. Pure noi siamo vulnerabili. La violenza è pronta a contaminare il nostro mondo. Paura, stupore, rabbia, concitazione fanno vibrare la pelle di ogni alessandrino.
La memoria ritorna alla protesta nel carcere di inizio anno, quando, allora, i detenuti alessandrini come quelli di mezza Italia chiedevano una riforma carceraria radicale e trattamenti più umani all’interno delle strutture carcerarie.

E le prime domande incominciano a farsi strada tra commentatori e osservatori. Primo, ci troviamo di fronte ad una rivolta dal sapore politico, con la prigionia intesa come scuola di rivoluzione? Secondo, come hanno fatto le armi a finire in mano ai tre?

Solo in serata il Procuratore Reviglio della Venaria avrà un fugace incontro con i detenuti, sufficiente a prendere atto delle condizioni dettate dai rivoltosi per il rilascio degli ostaggi. Come in una sceneggiatura di un film visto troppe volte con troppi attori diversi, i banditi chiedono garanzie e mezzi di trasporto per lasciarsi il carcere alle loro spalle. Nella confusione delle informazioni si favoleggia anche di soldi in contanti e un aereo per Cuba. Quando la cronaca imbocca la strada della leggenda.

Le cose vere invece non filtrano, e sono quelle che si dimostreranno essenziali per l’esito finale: i tre rivoltosi non hanno improvvisato nulla, e sembrano quasi votati al suicidio pur di riuscire nella loro impresa, invece per il procuratore Reviglio della Venaria, e per il Generale Carlo Alberto Della Chiesa, lo Stato non può e non deve accettare condizioni e trattative con dei criminali. Sarebbe l’umiliazione e lo sgretolamento dello stato stesso. L’assalto alla diligenza appare come la scelta obbligata anche per dare una lezione a chi, detenuto, crede che sia sufficiente prendere un ostaggio per riavere la sua libertà.

Alle 19.30 parte un primo assalto dei carabinieri, un fronte di gas lacrimogeno per stanare i banditi e un fuoco continuo per abbatterli senza mettere in pericolo la vita degli ostaggi. Risultato: le prime vittime, il dottor Gandolfi e il dottor Campi, ferito mortalmente e che spirerà alcuni giorni dopo. Nel frattempo rivoltosi e ostaggi arretrano in un rifugio diverso.
L’azione è stata inefficace, la linea dura ha fallito, e una nuova inquietante domanda si aggiunge alle precedenti: chi, nella confusione, ha sparato i colpi fatali? Nei giorni a venire si accavalleranno versioni diverse e testimonianze controverse, ma alla fine le responsabilità verranno addossate ai rivoltosi.

Ne seguono le inevitabile ore d’angoscia notturna, e i primi atti concreti per dare soluzione alla vicenda già la mattina successiva. La logica dell’atto di forza sembra finire in un angolo. Alcuni mediatori tentano di far ripartire le trattative offrendosi anche come scorta per permettere ai detenuti di allontanarsi senza gli ostaggi.

Tra questi figure illustri come quella di don Maurilio Guasco e l’allora consigliere regionale del PCI Luciano Raschio. Sul campo sono presenti anche il sindaco Felice Borgoglio, il suo vice Alfio Brina, l’onorevole Fracchia e il senatore Vignolo, oltre a vari assessori e consiglieri comunali e regionali. La presenza in prima fila delle rappresentanze politiche della città sembrano fare ben sperare in un esito di natura più diplomatica che militare. Al punto che, all’interno del Don Soria, gli ostaggi sono già legati con bende e coperti da lenzuoli pronti a essere confusi con i banditi in attesa di una immediata uscita dal carcere.

Venerdì 10 maggio, zitto zitto lo Stato ha accantonato la logica della diplomazia, e si fa strada la fretta di chiudere la partita in tempi ravvicinati. Chiuse le trattative, nessuno spazio alla linea morbida. Non si cede al ricatto e alle 17 parte l’assalto finale, un attacco improvviso e inaspettato, condotto in simultanea dall’interno e dall’esterno del carcere, con candelotti lacrimogeni e il solito fronte di fuoco.

Le armi parleranno per un tempo che nessuno saprà conteggiare in maniera precisa e questa volta le vittime sono tre: l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, il brigadiere Gennaro Cantiello e l’appuntato Sebastiano Gaeta. Oltre ai detenuti Concu e Di Bona.
Caso aperto, caso chiuso.

 

L’altra verità sulla strage nel carcere

Parla don Maurilio Guasco, l’ultimo mediatore: quarant’anni dopo la rivolta gli errori e il cinismo di un’operazione costata 7 morti.
Don Maurilio Guasco
PIERO BOTTINO
ALESSANDRIA

Ma che cosa avete fatto, sono morti tutti!». «Hanno sbagliato giorno. Padre e lei credeva davvero che li avremmo fatti uscire a due giorni dal referendum? Lei è coraggioso, ma anche molto ingenuo». «Mi sta dicendo che per quattro voti in più avete fatto morire tutta quella gente?!».

 

Carcere di Alessandria, pomeriggio del 10 maggio 1974, pochi minuti dopo la strage in carcere. A parlare sono l’ultimo mediatore con i rivoltosi, don Maurilio Guasco (docente di Storia, in ultimo all’Avogadro) e Giuseppe Montesano, capo della Criminalpol di Torino, il «commissario Maigret» Anni ’60 e ’70 che ispirò libri e film. Come vedremo non è l’unico mito ridimensionato dalla brutta storia della rivolta al Don Soria. Stavolta vogliamo raccontare, dopo 40 anni, l’altra verità, quella che si è sempre detta ma non scritta, se non a spizzichi e bocconi e su pubblicazioni connotate politicamente.

 

Don Maurilio partiamo dall’inizio. Lei come entra nella vicenda?

«Le trattative il giovedì le condussero i giornalisti Marchiaro, Camagna e Zerbino, poi ci fu il primo blitz con la morte del dottor Gandolfi e il ferimento, poi mortale, del professor Campi. A quel punto i tre rivoltosi (Concu, Di Bona e Levrero; ndr) non si fidano più non tanto dei mediatori, quanto di quelli che li mandano. Allora uno degli ostaggi, don Mario Martinengo che insegnava in carcere, fa il mio nome. Il cappellano don Remigio Cavanna dice: “E’ qui fuori vado a chiamarlo”. Io infatti ero in piazza».

Al primo incontro non va da solo.

«No, i rivoltosi ne volevano due, forse per usarci come scudi. Lì c’era anche un consigliere regionale del Pci, Luciano Raschio, che si offre: “Sono stato partigiano”. Andiamo, registriamo le loro richieste (un pullmino per farci salire i 19 ostaggi, semafori verdi fino a Spinetta, eccetera) e torniamo a riferire. Il generale Carlo Alberto della Chiesa mi dice: “Prenda tempo”. E come faccio? “Si aggiusti”. Così torno dentro».

 

Da solo.

«Sì, era successa una cosa strana che ho ricostruito solo anni dopo. Allora era appena iniziata la strategia del compromesso storico e da Roma avevano telefonato al Pci di Alessandria: “Non fatevi coinvolgere”. Così Raschio sparì. Solo che qualche ora dopo telefonò Berlinguer in persona per elogiare l’eroico compagno e anche il prete. I comunisti alessandrini si misero le mani nei capelli: “Che cosa abbiamo fatto!”».

 

Comunque la trattativa con i tre rivoltosi va avanti.

«Certo, mi dettagliano le richieste e io torno di nuovo a riferire. Della Chiesa mi dice: “Va bene, va bene” e se ne va. Non mi interpelleranno più. Ho visto in piazza uno dei motociclisti che dovevano scortarci: stava nascondendo una pistola nel gambale. Ma come, gli dissi, hanno chiesto che foste disarmati. “Padre, lei vuole che io scorti gente come quella senza neanche un’arma?” Ma intanto gli altri preparavano già il blitz».

 

Il famoso secondo assalto.

«Non ci fu nessun assalto. In base alle testimonianze che ho raccolto ostaggi e rivoltosi erano ormai ristretti in un stanzetta. La porta era aperta, da fuori gettarono all’interno bombe lacrimogene pensando di snidarli col fumo. Invece Concu chiuse la porta e Di Bona fece quel che aveva promesso. Sparò per uccidere, a quattro ostaggi: l’assistente sociale Vassallo Giarola, le due guardie carcerarie e l’ingegner Vincenzo Rossi, ferito ad una gamba. L’ultimo colpo lo lasciò per sè».

 

Concu e Levrero?

«Il primo uscì con le mani in alto e la pistola in pugno (ma poi si scoprì che era un ferrovecchio inutilizzabile) e fu crivellato di colpi: morirà in ospedale. Levrero, che aveva solo un coltello, si rifugiò in uno sgabuzzino: stava per fare la fine di Concu, ma il colonnello Musti dei carabinieri bloccò i suoi uomini e gli salvò la vita».

 

A Gandolfi e Campi il primo giorno chi sparò?

«Dalle testimonianze, Gandolfi fu colpito al capo mentre era seduto davanti a una finestra che andò in frantumi per la sparatoria, da dentro e da fuori. Campi invece durante la ritirata dall’infermeria nei bagni, forse disorientato dal fumo sbagliò strada. Può darsi che Di Bona, temendo che tentasse la fuga, gli abbia sparato; oppure anche per lui fu una pallottola vagante. Comunque per accertare la verità sarebbe bastata un’analisi balistica, invece due giorni dopo la strage furono addirittura imbiancati i muri, altro che scena del crimine».

 

Ma lei poi queste cose le ha mai raccontate?

«Sì, più volte. Scrissi anche una lettera a Repubblica, la spedii. Il giorno dopo aprendo il giornale appresi che il generale Carlo Alberto Della Chiesa era stato nominato comandante in capo dell’antiterrorismo. Poi divenne l’uomo che aveva sgominato le Br, infine il martire della lotta alla mafia. Quella lettera non fu mai pubblicata».

 

E l’inchiesta?

«Fui interrogato dai giudici di Genova (il processo si svolse là), ma l’allora procuratore Coco fece stralciare la mia testimonianza in quanto, scrisse, “nonostante sia molto ben circostanziata è chiaramente inficiata da animosità verso le forze dell’ordine”. Comunque alla fine la Corte ordinò che gli atti fossero rinviati ad Alessandria per un supplemento di indagini sui comportamenti di Della Chiesa e del procuratore generale Carlo Reviglio della Veneria, i due che guidarono le operazioni».

 

Ma non ci fu mai.

«Andai dall’allora procuratore Buzio a dirgli: lei deve riaprire l’inchiesta, è obbligato a farlo. Lui mi guardò e rispose: “Padre lei è coraggioso, ma resta un inguaribile ingenuo”».

Parole che chiudono il cerchio.

http://www.lastampa.it/2014/05/12/edizioni/alessandria/laltra-verit-sulla-strage-nel-carcere-CchogWJ61j98A4hFIvWg3J/pagina.html